L’esecutore testamentario

Ottobre 8, 2021

Pubblicato su Kleros Magazine n. 9 del mese di Ottobre 2021 –
Kleros Community Patrimonialisti Italiani – Riproduzione vietata

Avete mai pensato al testamento? 

Cosa molto importante: decidi tu per i tuoi beni nel futuro. Qualcuno, però, giustamente potrebbe chiedersi: “ok, ma quando quel testamento verrà pubblicato, una cosa è sicura ….io non ci sarò più…chi mi assicura che le mie volontà verranno osservate per bene?”

Eh già domanda legittima …. ma tranquilli, la legge ha pensato anche a questo: si chiama “esecutore testamentario” e ne parliamo con Alba. 

Ciao Alba, proviamo a spiegare a chi legge chi è l’esecutore testamentario?

Certo. Si tratta, molto semplicemente, di una persona di fiducia, nominata dal testatore, a cui viene attribuito il compito di prendersi cura della esatta ed effettiva esecuzione delle ultime volontà del defunto. La figura dell’esecutore testamentario è regolata dagli articoli 700 e ss del nostro Codice civile e leggendo bene il dettato normativo già si può intuire la grande responsabilità riconducibile a questo ruolo.

Chiarissimo … scrivo il mio testamento, esprimo le mie volontà, e indico anche chi si dovrà occupare della sua esecuzione … Mi sorge un dubbio: per questa attività è previsto un “compenso”?

Il codice civile stabilisce che se il de cuius nel testamento non abbia disposto diversamente, è un incarico a titolo gratuito. Tuttavia, considerato l’impegno che implica, credo sia una attività dove una spettanza sia più che giustificata. 

Ti è mai capitato nell’esercizio della tua professione di essere nominata esecutrice testamentaria?

Sì, certo, e posso assicurare che, se da una parte è un onore essere individuati come tali, dall’altra non sempre si tratta di una “fortuna”; pertanto occorre riflettere bene se accettare o rinunciare all’incarico. 

Aspetta …. “accettare o meno l’incarico”: spiegaci meglio….

Sì, se decidi di assumere l’incarico, l’accettazione va formalizzata presso l’ufficio successioni del tribunale competente (fa fede l’ultima residenza del de cuius o il luogo di apertura del testamento). Non ti nascondo che prendere l’appuntamento presso questo ufficio per l’accettazione, nell’ultimo anno (principalmente a causa del Covid) e specie nelle grandi città, comporta non poche difficoltà. 

Tieni presente che accettare questo delicato incarico significa presentare la dichiarazione di successione ed entrare in possesso dei beni del de cuius, ed esserne responsabili. 

Aspetto delicato direi ….

Certo e la principale conseguenza è quella di dover redigere il c.d. “inventario dei beni”, cosa non semplicissima, considerato che concretamente occorre interloquire con banche ed enti. 

Ad esempio, occorre ottenere dalla banca la lettera dei cespiti, ovvero l’ammontare degli investimenti del de cuius e di quanto presente sul conto corrente, e saranno necessari l’atto notarile di apertura e pubblicazione del testamento, il certificato di morte, l’atto notorio …..

Immagino sia complicato già con tutti i beni in Italia …. Non oso pensare se ci sono beni all’estero….

Diciamo che nel caso si trattasse di una successione transfrontaliera accettare l’incarico di esecutore testamentario è una decisione quasi “eroica”.

Ogni atto e qualsiasi documento devono essere tradotti, legalizzati e muniti di apostilla, cioè di un timbro che viene apposto dal governo di un Paese firmatario della Convenzione dell’Aja del 1961…..

Dicevi però che si può anche rinunciare all’incarico ….

È chiaro che si può non accettare l’incarico e per coloro che invece già hanno accettato, occorre ricordare che in seguito si può anche rinunciare, però solo per gravi e/o giusta causa e comunque in modo non intempestivo (vale a dire per ragioni sopraggiunte e gravi motivi che dovranno essere indicati) e, anche in questo caso l’atto di rinuncia deve essere effettuato presso l’ufficio successioni del tribunale competente.

Facciamo che domani pubblicano un bel testamento dal quale esce il mio nome come esecutore testamentario: ti chiamo, tu cosa mi dici? 

Ti dico sicuramente che è un onore per te, perché quella persona in tal modo ha espresso massima fiducia e stima nei tuoi confronti. Però ti consiglio anche di pensarci bene, perché comporta impegno e responsabilità. Sono convinta, però, che se tu dovessi rinunciare, il tuo amico, ovunque sia, il vostro amico ti perdonerà!

lo spero, Grazie Alba!

Avv. Alba Cicala

Che cosa è il mutuo?

Giugno 1, 2021
  1. Definizione ed origini storica
  2. Le diverse tipologia di mutuo: 
    1. Il mutuo a tasso fisso; 
    2. Il mutuo a tasso variabile: 
    3. Il mutuo a tasso misto; 
    4. Il mutuo a tasso doppio. 
  3. I costi del mutuo
  4. La surroga 
  5. La rinegoziazione

1 Definizione ed origine storica 

Oggi la Cicala vuole approfondire cosa sia il mutuo (ops! La prima domanda all’esame di promotore nel 1999 del Vostro consulente finanziario).

Come sempre, partiamo dalla definizione che ci fornisce il Codice Civile. 

Secondo l’articolo 1813 c.c., “il mutuo è il contratto col quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stesse specie e qualità”. 

Analizzando parola per parola la definizione appena riportata, rileviamo che si tratta di un contratto reale, cioè di quella tipologia di contratto che si perfeziona con la consegna materiale della cosa (c.d. traditio rei), in cui il mutuante, la banca erogatrice, consegna al mutuatario, il soggetto a favore del quale è stato concesso il mutuo, del denaro ovvero dei beni fungibili. 

L’obbligazione derivante dal mutuo si modellò già nel diritto romano sull’obbligazione derivante da delitto, così come quest’ultima si era tratteggiata quando si diede corso alla fase della composizione volontaria delle liti. 

Il mutuatario, cioè, o altri per lui, si assoggettava al creditore: costituiva sé stesso o una persona della sua famiglia come ostaggio e garante. ll regime della composizione garantita dalla obligatio (asservimento) del colpevole (o di altri per lui) suggerì l’espediente di garantire in modo analogo il pagamento della somma mutuata. Pare che la persona così assoggettata fosse lasciata d’ordinario in uno stato di precaria libertà di fatto; ma giuridicamente era asservita al creditore e questi conservava in qualunque momento la facoltà d’impadronirsene. I caduti in siffatta condizione di asservimento si dicevano nexi: posizione analoga a quella dei servi e dei filii familias mancipio dati nell’epoca storica del diritto romano.

Un momento storico fondamentale nell’evoluzione dell’istituto del mutuo, e dell’obbligazione in generale, in Roma possiamo fissarlo grazie allo storico Tito Livio (Ab Urbe Condita Libro VIII, 28) che ci ricorda una legge – la lex Poetelia dell’anno 326 a. C. – la quale vietò che le obbligazioni da mutuo (e, in generale, da contratto) cagionassero un asservimento personale a garanzia del pagamento del debito e sostituì all’asservimento personale un asservimento patrimoniale: alla obligatio personae la obligatio rei: “pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esset (trad: che i beni soltanto, e non la persona del debitore, potesse essere presi come garanzia della somma dovuta)”. 

Anche nelle Institutiones di Gaio viene data una descrizione di mutuo in questo modo: “Re contrahitur obligatio velut mutui datione. Mutui autem datio proprie in his rebus contingit quae pondere numero mensura constant, qualis est pecunia numerata vinum oleum frumentum aes argentum aurum. Quas res aut numerandoaut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et quandoque nobis non eaedem, sed aliae eiusdem naturareddantur. Unde etiam mutuum appellatum est, quia quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit (trad. L’obbligazione si contrae mediante cosa come nel caso del mutuo. La dazione a mutuo concerne propriamente quelle cose che valgono per peso, numero o misura, quali il denaro contante, il vino, l’olio, il frumento, il rame, l’argento e l’oro. Diamo queste cose, a numero, peso o misura, affinché diventino di chi le riceve, e ci vengano successivamente restituite, non le stesse, ma altre della stessa natura. Per questo è chiamato mutuo, perché quel che ti è dato in questo modo da me, diventa da mio tuo)”.

A differenza del mutuo romano, il mutuo greco (δάνειον) s’incorpora in un documento che ha un valore suo proprio, secondo l’opinione dominante, indipendentemente dalla causa menzionata. Ciò si esprime col dire che il diritto greco riconosce al mutuo il valore di obbligazione letterale. Sotto la forma del δάνειον sono redatti documenti di crediti svariati: mutuo ex causa antecedente, delegazione, promessa di donazione, carta d’alimentazione (συγγραϕὴ τροϕῖτις) rilasciata dal marito alla moglie che gli sia unita per matrimonio non scritto (γάμος ἄγραϕος).

2 Le diverse tipologie di mutuo: durata – finalità e tasso di interesse

I contratti di mutuo possono essere differenti in funzione della durata, della finalità e dei tassi d’interesse ad essi applicati. 

In base alla durata un mutuo può essere definito di media o lunga durata: si va dai 5 anni ai 30 anni. 

Invece, in base alla finalità si può certamente dire che un mutuo serva per:

  • l’acquisto di un immobile
  • la costruzione di un immobile
  • la ristrutturazione di un immobile 
  • la mancanza di liquidità. 

Infine, i mutui si distinguono in base ai tassi di interesse: 

  • tasso fisso
  • tasso variabile
  • tasso misto
  • tasso doppio. 

Prima di entrare nel merito, però si deve definire cosa si intenda per interesse, ovvero è quanto il mutuatario deve pagare al mutuante per ricevere la somma di denaro per un dato periodo. Non è corretto definire l’interesse come il costo del mutuo, perché come vedremo, durante la pratica di istruttoria di mutuo e della conseguente erogazione ci possono essere, anzi ci sono altre voci che vanno a costituire quello che può essere definito come costo del mutuo. 

Il mutuo a tasso fisso 

Il tasso di interesse fisso non ha bisogno di definizione, in quanto resta quello fissato dal contratto per tutta la durata del mutuo. 

Lo svantaggio è non poter sfruttare eventuali riduzioni dei tassi di mercato che dovessero verificarsi nel tempo. 

Il tasso fisso è consigliato a chi teme che i tassi di mercato possano crescere e fin dal momento della firma del contratto vuole essere certo degli importi delle singole rate e dell’ammontare complessivo del debito da restituire. 

Il mutuo a tasso variabile 

Benché sia sufficientemente chiaro anche cosa si intenda per tasso di interesse variabile, si deve dire che questa tipologia di tasso di interesse può variare a scadenze prestabilite rispetto al tasso di partenza perché segue le oscillazioni di un parametro di riferimento, di solito stabilito sui mercati monetari e finanziari. 

Il rischio principale è un aumento dell’importo delle rate. 

A parità di durata, i tassi variabili all’inizio sono più bassi di quelli fissi, ma possono aumentare nel tempo, facendo così aumentare l’importo delle rate, anche in misura consistente. 

Il mutuo a tasso misto 

In questo caso il tasso di interesse può passare da fisso a variabile (o viceversa) a scadenze fisse e/o a determinate condizioni indicate nel contratto. Vantaggi e svantaggi sono alternativamente quelli del tasso fisso o del tasso variabile. 

Il mutuo a tasso doppio 

Il mutuo è suddiviso in due parti: una con il tasso fisso, una con il tasso variabile. 

3 I costi del mutuo

Come abbiamo già detto, il tasso di interesse NON è l’unico costo che il mutuatario deve sostenere, ma, oltre alle imposte, si devono aggiungere anche le seguenti voci:  

  • le spese di istruttoria, che possono consistere sia in un importo fisso sia in una percentuale calcolata sull’ammontare del finanziamento; 
  • le spese di perizia, che possono essere richieste per la valutazione dell’immobile da ipotecare; 
  • le spese notarili per il contratto di mutuo e l’iscrizione dell’ipoteca nei registri immobiliari; 
  • il costo del premio di assicurazione a copertura di danni sull’immobile ed eventualmente dei rischi legati a eventi relativi alla vita del cliente (esempio: la perdita del posto di lavoro) che potrebbero impedirgli di rimborsare il prestito. Se l’intermediario chiede di stipulare un’assicurazione sulla vita è tenuto ad accettare, senza variare le condizioni offerte per l’erogazione del mutuo, la polizza che il cliente presenta o reperisce autonomamente sul mercato, sempre che la polizza offra un livello di protezione equivalente a quella proposta dall’intermediario. Se il cliente accetta di stipulare l’assicurazione offerta dall’intermediario, dovrà essere informato dell’ammontare della provvigione pagata dalla compagnia assicurativa all’intermediario. 
  • gli interessi di mora, se si paga la rata in ritardo. In genere comportano una maggiorazione percentuale rispetto al tasso pattuito per il finanziamento e decorrono dal giorno della scadenza fino al pagamento della rata; 
  • la commissione annua di gestione della pratica, le spese per l’incasso della rata (l’elenco completo delle spese è nel foglio contenente le Informazioni generali). 
  • Qualora si decida di ricorrere a un mediatore creditizio, è importante informarsi prima sul compenso richiesto. 

4 La surroga

Nell’ambito che ci interessa, ovvero nel contratto di mutuo, la surroga è il trasferimento di un mutuo già in corso dalla banca in cui è stato acceso in un’altra che offre condizioni migliorative.

La facoltà di surroga del mutuo su volontà del debitore, ovvero del mutuatario, esiste fin dal 1942 con la promulgazione dell’articolo 1202 del Codice Civile. Tuttavia, non veniva mai utilizzata per via delle sue problematiche operative. Questo, però, fino alla cosiddetta “Legge Bersani” del 2007, che ha riportato in auge la surroga definendone meglio le caratteristiche e opportunità, e rendendola più conveniente per il mutuatario.

Le prime disposizioni sulla portabilità del mutuo sono state introdotte nell’ordinamento italiano dall’articolo 8 del DL n.7 del 31 gennaio 2007 (meglio conosciuto con Decreto Legge Bersani bis), convertito con modificazioni dalla Legge n.40 del 2 aprile 2007. Questo articolo è stato poi successivamente modificato dall’articolo 2 comma 450 della Legge n.244 del 24 dicembre 2007 (Legge Finanziaria 2008). Successivamente la normativa è stata modificata dal Decreto Legislativo n.141 del 13 agosto 2010. 

L’articolo 4 comma 2 del DL 141/2010 ha di fatto trasfuso la disciplina nel Testo Unico Bancario (abbreviato TUB), cioè l’elenco delle leggi in materia bancaria e creditizia contenute nel Decreto Legislativo n. 385 del 1° settembre 1993 e successive modificazioni, aggiungendo l’articolo 120-quater. Ad oggi, quindi, la disciplina della surroga o portabilità del mutuo è contenuta nelle regole del Testo Unico Bancario. 

La Bersani-bis ha introdotto una novità per l’esercizio della surroga: la portabilità dell’ipoteca. In precedenza, era necessario cancellare l’ipoteca e, estinto il vecchio mutuo, iscrivere una nuova ipoteca con l’istituto di credito subentrante.

In base alle nuove regole, anziché cancellare l’ipoteca, nei Registri Immobiliari il notaio effettua un cambio di attore, indicando il nome del nuovo creditore con una nota a margine della vecchia ipoteca.

Secondo la legge finanziaria del 2008, le spese di nuova istruttoria e perizia e ogni altro onere sono a carico della banca subentrante, fatto salvo l’onorario notarile. 

5 La rinegoziazione

In base al citato decreto Bersani, la banca non può operare un’autosurroga, per stipulare un mutuo a nuove condizioni. La surroga è finalizzata alla portabilità dell’ipoteca, e vale soltanto fra istituti differenti.
Tuttavia, se il cliente chiede una surroga, la banca può proporre una rinegoziazione e cambiare le condizioni contrattuali in modo più favorevole al cliente, con il consenso scritto di entrambe le parti.

La rinegoziazione non riguarda solo l’allungamento della durata, ma la ridefinizione di un qualunque aspetto del piano di ammortamento: durata, rata, interesse, spread, tipo di tasso.

La surroga e il confronto di preventivi di altre banche è anche un’opportunità per ottenere una rinegoziazione e condizioni migliorative dal proprio istituto di credito.

25.05.2021

Avv. Alba Cicala

Che cosa è un conto corrente o, meglio, cosa si intende per contratto di conto corrente?

Marzo 18, 2021
  1. Premessa
  2. Il conto corrente ordinario
  3. Il conto corrente bancario
    1. Il conto corrente bancario ed il conto corrente di corrispondenza: definizioni e differenza
    2. Diritti ed obblighi delle parti nel contratto di conto corrente bancario

1. Premessa

Oggi la Cicala non vuole parlarvi del conto corrente dal punto di vista economico-finanziario, compito che lascia al Consulente che lo farà sicuramente meglio, ma vuole attrarre la vostra attenzione su cosa si intende, legalmente parlando, con la dicitura “contratto di conto corrente” e sul fatto che è il Codice Civile che definisce la nozione di “conto corrente”, in quanto il legislatore ha ritenuto utile fissare una nozione del contratto di conto corrente per far risultare in modo chiaro e preciso quelli che sono gli elementi costitutivi, nonché gli estremi essenziali e distintivi del contratto. 

Preliminarmente, però, è necessario ricordare, cosa sia un contratto. Per farlo, si deve far riferimento sempre al Codice Civile che, all’art. 1321, lo definisce come: “l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.

Da ciò se ne può, quindi, ricavare che il contratto:

  • è un accordo necessariamente bi o plurilaterale;
  • ha sempre natura patrimoniale;
  • ha la funzione di costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici.


Il Codice Civile definisce ben due contratti di conto corrente: 

  • il conto corrente ordinario;
  • il conto corrente bancario.

2. Il conto corrente ordinario

Nel contratto di conto corrente ordinario due soggetti, legati da costanti e frequenti relazioni commerciali, scelgono di regolamentare i diversi rapporti, da cui discendono reciproche posizioni di debito e credito, fino al momento convenuto della chiusura del conto. Cioè le parti annotano in un unico conto debiti e crediti, operando periodicamente una verifica del dare e dell’avere, attraverso la quale possono quantificare le reciproche spettanze. Ma solo con la chiusura del conto, alle scadenze stabilite dal contratto o dagli usi o, in mancanza, semestralmente, il saldo delle operazioni economiche diverrà liquido e si potrà considerare scaduto, esigibile e computabile dalla data del contratto. 

In mancanza di un termine contrattualmente previsto, il contratto di conto corrente ordinario potrà cessare i suoi effetti per il recesso delle parti, esercitabile a ogni chiusura del conto e con un preavviso di dieci giorni nei casi di sequestro o pignoramento, di interdizione, inabilitazione, insolvenza o morte di una delle parti. 

La ratio dell’istituto è evidente: nell’ambito delle varie operazioni economiche che possono intercorrere tra due parti, la molteplicità delle obbligazioni che sorgono e s’incrociano richiede una razionalizzazione della gestione, altrimenti complessa e contabilmente macchinosa. 

Giuridicamente il conto corrente ordinario è un contratto bilaterale, a prestazioni corrispettive (ops! La mia prima domanda all’esame di diritto privato il primo anno di università) e disciplinato dal Capo XVI del Codice Civile, che  appartiene alla categoria dei contratti normativi, cioè quegli atti con il quale le parti non dispongono direttamente dei loro interessi, ma fissano la disciplina vincolante per futuri contratti che saranno eventualmente stipulati o tra i soggetti stessi che hanno dato vita al contratto normativo, ovvero tra altri soggetti componenti di categorie, classi o gruppi, dei quali i partecipanti alla conclusione del contratto normativo abbiano avuto la rappresentanza. 

3. Il conto corrente bancario

A differenza che per il contratto di conto corrente ordinario appena esaminato, il legislatore per il contratto di conto corrente bancario, non fornisce una definizione chiara come quella sopra riportata, ma si limita a fornire le regole “delle operazioni bancarie in conto corrente”. Si può comunque dedurne che, nel contratto di conto corrente bancario, la banca si impegna nei confronti del cliente, sul presupposto dell’esistenza di una disponibilità presso di sé, a prestare un servizio, consistente in sostanza in un servizio di cassa, ossia nel provvedere per conto del cliente correntista, su ordine diretto ed indiretto e con le sue disponibilità, ai pagamenti ed alle riscossioni.

A differenza del contratto di conto corrente ordinario di cui sopra, il contratto di conto corrente bancario, anche conosciuto come c/c, mette dunque in condizione chi ha effettuato il deposito della somma di denaro di esigerla quando gli pare opportuno.

Si tratta, quindi, di un contratto divenuto socialmente tipico per il frequente utilizzo e la dettagliata disciplina contenuta nelle norme uniformi bancarie, ma legalmente atipico, non trovando né una definizione né una compiuta regolamentazione nelle norme di diritto positivo.

Nei contratti di conto corrente bancario, poi, esiste una macro divisione tra:

  • il conto corrente bancario ordinario (non è il conto corrente ordinario di cui sopra); 
  • il conto corrente di corrispondenza. 

3.1 Il conto corrente bancario ed il conto corrente di corrispondenza: definizioni e differenza

Il conto corrente di corrispondenza differisce dal conto ordinario in quanto il contratto prevede che la banca effettui in automatico un certo numero di operazioni al posto del cliente, dietro suo mandato ovviamente. Il nome deriva dal fatto che tali operazioni vengono commissionate tramite lettere di addebito o accredito. La banca ha l’autorizzazione da parte del cliente di effettuare regolarmente le operazioni richieste, e il cliente correntista conserva, in tutto questo, il diritto di disporre liberamente e in qualsiasi momento dell’importo a credito disponibile sul suo conto.

Dal punto di vista giuridico questa tipologia di contratto rientra tra i contratti atipici a contenuto misto ed è riconducibile alla disciplina del mandato, ovvero a quell’istituto che prevede che una parte si obblighi a compiere uno o più atti giuridici per conto di un’altra. 

Funzionali allo scopo del contratto in esame, ovvero il conto corrente bancario di corrispondenza, sono due momenti fondamentali: 

  • quello gestorio, rappresentato dal conferimento di incarichi alla banca;
  • quello costitutivo della provvista necessaria all’esecuzione di quegli incarichi

Le differenze rispetto al contratto di conto corrente ordinario sono principalmente: 

  • la mancanza dell’elemento della reciprocità: l’istituto di credito non effettua rimesse, limitandosi a eseguire l’ordine del cliente che può sempre e immediatamente disporre delle somme accreditategli. 
  • Il dover rispettare una diversa regolamentazione in materia di anatocismo con l’espresso divieto della capitalizzazione degli interessi maturati alla definizione periodica.

3.2 Diritti ed obblighi delle parti nel contratto di conto corrente bancario

Diritti e obblighi delle parti nel contratto di conto corrente bancario, di entrambe tipologie, sono principalmente stabiliti dal Testo Unico Bancario (D. Lgs. n. 385/1993) nell’ottica di una disciplina orientata ad accrescere la tutela del contraente debole, in particolare con la conferma dei principi di trasparenza e d’informazione cui la banca deve adeguarsi per garantire al cliente un quadro chiaro ed esauriente delle condizioni, clausole e modificazioni contrattuali che andrà a stipulare o di cui già subisce gli effetti.

Rileva pertanto in tale direzione l’obbligo, previsto a pena di nullità, di redigere i contratti per iscritto, con una copia da consegnare al cliente, copia dalla quale lo stesso possa avere conoscenza del tasso di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora.

La formalità così imposte e il regime di pubblicità delle condizioni generali di contratto svolgono pertanto una funzione informativa, per la quale la conformità rispetto a quanto diffuso pubblicamente costituisce condizione di validità del singolo contratto concluso, risultando nulle e non apposte eventuali clausole, anche di rinvio agli usi, più sfavorevoli al cliente rispetto a tassi, prezzi e condizioni pubblicizzate.

Funzionale alla trasparenza bancaria è chiaramente l’invio trimestrale o mensile dell’estratto conto, attraverso il quale il correntista può costantemente verificare i movimenti effettuati e il saldo, distinto in contabile, ovvero le operazioni registrate, disponibile, ovvero la somma che può essere effettivamente utilizzata, liquido, ovvero la somma disponibile su cui vengono calcolati gli interessi. In base all’art. 119 TUB, infine, l’estratto conto s’intende approvato trascorsi sessanta giorni dalla sua ricezione senza alcuna opposizione.

Da quanto sopra esposto si può comprendere la complessità e la vastità dell’argomento, per cui ove siate interessati ad ulteriori approfondimenti vi raccomando di rivolgervi ad un esperto qualificato in materia quale il Consulente!  

Roma, 20.05.2021

Avv. Alba Cicala

Che cosa è il Trattamento di fine rapporto, alias la liquidazione?

Marzo 18, 2021

Premessa ed excursus storico

Oggi la Cicala vuole approfondire il tema trattato nella puntata n. 10 de “il Consulente e la Cicala” (la potete rivedere sulla pagina del sito www.robertom113.sg-host.com oppure sul canale youtube “Andrea Sabolo il chitarrista finanziario” a cui immagino sarete già iscritti!): il trattamento di fine rapporto o in breve TFR o con un termine un po’ datato la liquidazione. 

Prima di addentrarci in cosa sia il trattamento di fine rapporto, di come debba essere calcolato e di quando venga erogato, è bene fare un piccolo excursus storico di tutte le norme che sono intervenute nella regolamentazione di questo istituto. 

Già nel lontano 1927, ormai quasi cent’anni fa, il legislatore ha dato importanza al momento di termine dell’attività lavorativa istituendo la c.d. indennità di anzianità. Infatti nella “Carta del Lavoro”, pubblicata sulla gazzetta ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927, veniva espressamente previsto che “nelle imprese a lavoro continuo il lavoratore ha diritto, in caso di cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza sua colpa, ad una indennità proporzionata agli anni di servizio. Tale indennità è dovuta anche in caso di morte del lavoratore”.

Con il passare del tempo questa somma di denaro veniva corrisposta al lavoratore a coronamento della vita lavorativa e dunque non più come aiuto o sostegno per traghettarlo da un’occupazione ad un’altra, come, invece, era nella norma del 1927. 

Successivamente, con la redazione e la successiva emanazione del codice civile, avvenuta con il regio decreto 16 marzo 1942, n. 262 entrato in vigore il successivo 21 aprile 1942 (data convenzionale della fondazione di Roma), il legislatore ha normativamente previsto, con l’articolo 2120, il trattamento di fine rapporto. 

Con la legge n. 297 del 29 maggio 1982 è stato introdotto sia il concetto di “non occasionalità“, per cui, a differenza del sistema previgente basato sulla “continuità” (ovvero la ripetizione nel tempo di un dato compenso), la nozione di retribuzione ai fini del TFR attiene alla tipologia e alla natura del compenso, includendo tutti i corrispettivi e le erogazioni di cui il lavoratore gode nel corso del rapporto di lavoro, indipendentemente dall’elemento temporale della percezione del compenso; sia il concetto di “rivalutazione del trattamento di fine rapporto”,  al fine di evitare che una somma di denaro destinata ad esser percepita in un momento successivo a quello in cui matura, subisca nelle more una svalutazione.

Invece, con il decreto legislativo n.151/2001 (Testo Unico Maternità e Paternità)il legislatore è intervenuto per incrementare le cause che giustificano la richiesta di anticipazione del TFR che, come vedremo, solo in alcune occasioni particolari può essere richiesto in costanza di rapporto di lavoro.


Infine, con l’emanazione del decreto legislativo n. 252/2005 (Testo Unico della previdenza complementare), entrato in vigore il 1° gennaio 2007, ciascun lavoratore è chiamato a decidere se destinare il proprio trattamento di fine rapporto alle forme pensionistiche complementari (indicando il fondo pensione prescelto) oppure se mantenerlo presso il datore di lavoro, formulando esplicito rifiuto, altrimenti l’adesione al fondo complementare avviene automaticamente tramite il meccanismo del silenzio-assenso. 

Dopo il breve excursus storico, si può passare ad esaminare l’istituto del trattamento di fine rapporto in tutte le sue peculiarità partendo, come sempre, dalla sua definizione. 

La definizione di trattamento di fine rapporto e le sue caratteristiche principali: l’obbligatorietà della corresponsione e l’adeguamento annuo

Il trattamento di fine rapporto è quell’istituto che garantisce al lavoratore una somma economica, anche detta liquidazione, commisurata alla retribuzione e corrisposta al momento di cessazione del rapporto di lavoro, per qualsiasi motivo intervenuta.

Si tratta, pertanto, di una retribuzione differita nel tempo, incrementata per ogni anno di lavoro, cui hanno diritto tutti i lavoratori subordinati. 

Partendo dalla definizione dell’istituto, vengono subito in evidenza due fondamentali caratteristiche del trattamento di fine rapporto:

  • è dovuto SEMPRE: in nessun caso il lavoratore ne può essere privato; 
  • l’adeguamento annuo. 

2.1. L’obbligatorietà della corresponsione

All’atto della cessazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a pagare, al dipendente, il trattamento di fine rapporto, accantonato durante gli anni di servizio, sempre che quest’ultimo non abbia preferito l’accantonamento in qualche fondo pensionistico estraneo all’azienda.

L’azienda non può trovare giustificazioni per ritardare il pagamento del trattamento di fine rapporto che, pertanto, dovrebbe essere versato al lavoratore già all’atto della cessazione del rapporto di lavoro o, comunque, nel rispetto del diverso termine stabilito dal contratto collettivo nazionale applicabile.

La giurisprudenza maggioritaria ha affermato che l’impossibilità di determinare l’esatto ammontare del TFR dovuto al lavoratore nello stesso giorno di cessazione del rapporto di lavoro – stante la necessità di attendere l’aggiornamento dei coefficienti di rivalutazione – non determinerebbe lo spostamento della scadenza dell’obbligazione ed il tempo di maturazione del diritto al TFR, infatti, coincide con il momento della cessazione del rapporto e, in caso di ritardo nel pagamento, sono dovuti interessi e rivalutazione monetaria.

Può succedere, purtroppo, che il datore di lavoro non provveda al pagamento del trattamento di fine rapporto. In questo disdicevole caso, si sottolinea che il diritto al trattamento di fine rapporto si prescrive in 5 anni decorrenti dalla cessazione del rapporto di lavoro, che segna il momento di maturazione del diritto alla percezione del TFR. Questo significa che se il dipendente non pretende il versamento entro cinque anni, non ha più diritto ai soldi che gli spettano. Per evitare la prescrizione, tuttavia, è sufficiente che il lavoratore, in proprio o tramite avvocato o sindacato, invii una lettera di diffida all’azienda prima dello scadere del quinto anno. Successivamente alla diffida, ove il datore di lavoro non provveda al pagamento del dovuto, il lavoratore dovrà tutelarsi presentando, questa volta tramite legale, un ricorso per decreto ingiuntivo in tribunale ed una volta ottenuto il decreto ingiuntivo provvedere alla notifica all’azienda che avrà 40 giorni di tempo per pagare o, se del caso, fare opposizione. 

Nel caso in cui l’azienda fallisca prima di aver erogato il trattamento di fine rapporto il lavoratore dovrà rivolgersi per il pagamento al Fondo di Garanzia dell’Inps. 

Il mio consiglio, senza che me ne vogliano le aziende, è che ogni lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro si faccia assistere da un consulente del lavoro alias da un caf per verificare il calcolo di quanto gli spetterà o ha percepito come trattamento di fine rapporto e, nel caso di mancato pagamento del dovuto, si rivolga ad un bravo e competente avvocato, meglio se giuslavorista. 

L’adeguamento annuo

La seconda peculiarità del trattamento di fine rapporto è il suo adeguamento annuo. Quindi sorge spontanea la curiosità di sapere come venga calcolato il trattamento di fine rapporto e di come tale importo si rivaluti con il passare del tempo. Senza entrare troppo nella modalità di calcolo, o meglio nell’elencazione di tutti gli elementi retributivi che rientrano nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto, elencazione e analisi che lascio volentieri ai colleghi consulenti del lavoro, si può sicuramente affermare che il trattamento di fine rapporto è determinato da un importo pari e comunque non superiore alla retribuzione lorda dovuta per ogni anno di lavoro, divisa per 13,5, rivalutato al 31 dicembre di ogni anno con l’applicazione di una percentuale dell’1,5 % in misura fissa, e con il 75 % dell’aumento dell’indice dei prezzi, quale indicato dall’ISTAT con riferimento all’anno precedente.

I possibili motivi di richiesta di anticipo del TFR

Nell’excursus ad inizio articolo, abbiamo evidenziato che il legislatore, nel 2001, con il Testo Unico Maternità ha allargato le ipotesi di possibilità di richiesta anticipata del trattamento di fine rapporto. Quindi, anche qui sorge spontanea la curiosità di sapere quando un lavoratore può richiedere l’anticipazione del trattamento di fine rapporto. Ad oggi, il comma 8 dell’articolo 2120 del codice civile, prevede che, un lavoratore subordinato, con almeno 8 anni di anzianità di servizio presso lo stesso datore di lavoro, possa richiedere un anticipo di trattamento, massimo il 70% del TFR maturato, anche prima della cessazione del rapporto di lavoro, ma solo se ricorra una delle seguenti casistiche: 

a) spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche. 

b) acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, naturali o adottivi; 

c) costruzione abitazione principale;

d) ristrutturazione abitazione principale;

e) spese da sostenere durante il periodo di congedo parentale e dei congedi per la formazione di cui al testo unico della maternità; 

E’ bene ricordare che il datore di lavoro, pensiamo ad una grande azienda, deve soddisfare le richieste di anticipazione del trattamento di fine rapporto, annualmente entro il limite del 10% degli aventi titolo e comunque nel limite del 4% del numero totale dei dipendenti, valutandole in ordine cronologico o sulla base delle previsioni del contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento.

Breve cenno alla previdenza complementare

Fino al 31.12.2006, ogni lavoratore sapeva che il trattamento di fine rapporto, a meno di una esplicita e molto rara destinazione alla previdenza complementare, rimaneva in azienda fino al momento di cessazione del rapporto di lavoro. 

A partire dall’1°gennaio 2007, come abbiamo sopra indicato nel breve excursus, per effetto dell’entrata in vigore del Testo Unico della Previdenza Complementare, ciascun lavoratore è chiamato a decidere.

L’argomento della previdenza complementare, ovvero dei fondi pensione, oggetto della puntata n. 9 de “il Consulente e la Cicala” sarà trattato in uno dei prossimi articoli. 

La tassazione del TFR

Per finire l’analisi dell’istituto del trattamento di fine lavoro, si deve ricordare che la tassazione dell’importo che sarà erogato al lavoratore subordinato sarà la c.d. tassazione separata, in quanto si tratta di un reddito formatosi in un periodo pluriennale e, pertanto, non cumulabile con i redditi dell’anno in cui è concretamente riscosso.

Come l’elencazione e l’analisi delle voci retributive che devono rientrare nella base di computo del trattamento di fine rapporto, così il calcolo dell’ imposta dovuta sul trattamento di fine rapporto è alquanto complesso e tiene conto di diversi fattori, quali il periodo di maturazione delle quote (accantonamenti anteriori all’1.1.2001 o posteriori a tale data), la determinazione di un reddito annuale di riferimento (in base al numero di anni di lavoro), l’aliquota media da applicare a tale reddito. Pertanto, anche in questo caso, è bene che il lavoratore si rivolga ad un consulente del lavoro, alias ad un caf, o ad un dottore commercialista, anche e soprattutto in considerazione del fatto che l’imposta sul trattamento di fine rapporto è trattenuta alla fonte, e riliquidata dagli Uffici finanziari, entro il terzo anno successivo alla presentazione del modello 770 da parte del datore di lavoro.

21.05.2021

Avv. Alba Cicala